Il nome del più famoso dei giochi da tavolo viene da una antica parola provenzale e catalana, escac, che a sua volta discende dal persiano shah, che sta a significare “re”. I più anziani tra voi ricordano sicuramente che prima dell’avvento del regime degli ayatollah, il sovrano di Persia, l’attuale Iran, era definito Scià, lo Scià (Shah) di Persia.
Il gioco infatti ha la sua normale conclusione quando il Re è impossibilitato a muoversi o ad essere difeso da un altro pezzo. E’ quello il caso dello Shah Mat (“Re morto” secondo alcune tradizioni, “Re sconfitto, Re preso, Re sorpreso in imboscata” secondo altre).
Il gioco degli scacchi si considera generalmente derivato da un antico gioco diffuso in India nel VI secolo, lo chaturanga. I Persiani sarebbero poi stati quelli che hanno apportato le modifiche più significative, poi diventate patrimonio comune, chiamandolo shatranji. Il nome shatranji sarebbe divenuto nella maggior parte d’Europa Shah (da cui il termine italiano scacchi).
Quindi il gioco si potrebbe a buon diritto definire “il gioco del Re”, visto che è la sorte del Re che ne definisce la fine.
Lo Chaturanga prima e lo Sharanji poi, arrivati in Europa, si giocavano inizialmente al modo arabo. Quella che oggi conosciamo come Donna o Regina era inizialmente il Visir o il Cortigiano. Muoveva di una sola casa per volta in tutte le direzioni. Poi, per velocizzare il gioco, le si diede maggiore libertà e maggior potere. Stessa cosa avvenne per l’attuale Alfiere, in origine Elefante (Al-Fil) o Vescovo (tuttora tale, Bishop, in molte scacchiere anglosassoni). Prima muoveva (però solo in diagonale) due per volta, poi anche a lui venne “accelerato il passo”.
Fu alla fine del XV secolo, in Italia e Spagna, che vengono fissate le regole dette “occidentali” o “internazionali” che prevedono la possibile apertura di due case anzichè una con i pedoni, la possibilità per l’Alfiere di avanzare liberamente per l’intera diagonale libera, quella per la Regina di non avere limitazioni di distanza in ogni direzione. Infine il Carro da Guerra si trasformò nella Torre.
Perchè nel titolo lo chiamo gioco “nobile”? Perchè, ad esempio, non veniva osteggiato da ecclesiastici e predicatori; era ben lontano infatti dall’essere un gioco adatto alle taverne, alle bettole o alle osterie, dove i giochi da tavolo comunemente praticati erano i dadi ed i giochi di carte. Pensate che ci fu addirittura un domenicano che scrisse un’opera moraleggiante che riferiva agli scacchi! Jacopo de Cessole, questo è il suo nome, sosteneva che nella società umana ognuno aveva un compito specifico, i nobili (Il Re ed il Visir/Regina), l’esercito (i cavalli), l’attività giudiziaria ed amministrativa (gli Alfieri e le Torri), il popolo (i pedoni).
Ma in effetti gli scacchi hanno influenzato la nostra cultura e la nostra lingua. Dare scacco matto a qualcuno significa comunemente mettere il nostro avversario in condizione di non potersi muovere, di non poterci nuocere, in qualsiasi campo di attività ci si trovi.
La lingua tedesca conosce poi l’espressione Zugzwang, anche questa derivata dagli scacchi. Zwang indica la costrizione, zug il movimento. Si usa per dire che hai messo qualcuno nella condizione di doversi muovere, di dover prendere posizione. Negli scacchi sta a significare che uno dei giocatori, qualsiasi mossa faccia, si trovi, o a dover rischiare e magari subire lo scacco matto, o a dover patire la perdita di un pezzo importante.
Passando ad altre forme d’arte, troviamo gli scacchi immortalati in dipinti e mosaici anche medievali (tipo la Cappella Palatina del Palazzo dei Normanni a Palermo), citati nella Divina Commedia di Dante (Paradiso XXVIII, 91-93). Si pensi poi alla famosa Alice di Lewis Carrol, o, passando al cinema, alla partita a scacchi dei cavaliere con la morte, ne “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, o a quella dell’astronauta con il supercomputer HAL 9000 nel film 2001: Odissea nello spazio.
Al Centro Sportivo in Miniatura, potete esserne sicuri, gli scacchi non mancheranno!